venerdì 11 luglio 2014

Alberto Bevilacqua parla di Francesco

Alberto Bevilacqua
Parla
di
Francesco
Quando conobbi Francesco, egli applicava al legno quel lavoro di scavo che lo portava alla sua simbologia preferita: il nodo sacro  con cui la natura suggella le radici delle piante (in modo evidente) e degli esseri (nell’occulto insondabile). Convinsi Francesco a riflettere su questo punto e a mutare il proprio stile allorchè affrontava la tela, il quadro. La sua tendenza, allora, era infatti volta a servirsi dei pennelli per tratteggiare una figurativa piena, di stampo tradizionale. Il nodo, quindi, ossia l’intuizione esatta, si racchiudeva nella scultura; mentre la pittura serviva, quasi, in un ruolo di didascalia.
Oggi, Francesco ha imparato, anche in pittura, lo scorcio visionario che si serve del particolare per alludere a un’immensità di vero vissuto, e quindi anche di figure. Mi convince questo artista uscito, con un’intelligenza del mezzo espressivo, dall’artigiano volitivo di un tempo. Quando si confessa, egli dichiara: <<La mia forza, il mio dolore, il mio conflitto con la materia è una profonda radice che mi porto fin da piccolo, è questa la mia ricerca>>. Si è vero, ma solo in parte lo è. In realtà, Francesco deve convincersi che è possibile un piccolo miracolo, da cui è stato gratificato; è possibile, intendo, che l’istinto, il puro istinto, semplicemente sollecitato da occasionali prese di visione dell’opera altrui, porti alla purezza dello stile, o la contenga. In Cinardi, esiste l’impronta della forza tipica del romanico, e in particolare di uno scultore quale l’Antelami. E quella forza del romanico si atteggiava stralunata, simbolica, contorta a raffigurare visceri stravolti, o cuori strizzati da un dolore arcaico: membra,arti,resi – naturalmente – dalla spinta energica, passionale, del romanico. E’ bello quando Francesco confessa, ancora: << Guardo l’umanità che nessuna pietra può sigillare, ma che alla pietra restituisce ossa e carne >>. Il pensiero corre ai versi ungarettiani della pietra, al San Michele, e non è fuori luogo accorgersi che, nell’intaglio di Francesco o nel suo colpo di pennello, qualcosa si incide del tipico scavo di Ungaretti. Il nostro artista si esprime come tale, poi tenta un commento alla sua stessa opera, quasi a trovare una giustificazione, il breve eloquio di una didascalia. Dichiara ancora : << Mi assale una sorta di malinconia guardando attentamente le mie opere e mi chiedo: è veramente così l’essere che mi circonda? Abbietto, falso, crudele e vigliacco? Chissà…. >>. Strano senso di colpa, questo. Perché senza dubbio di sorta, le pitture e le sculture di Francesco non esprimono affatto un negativo   della condizione umana: caso mai un primitivo che persiste nella civiltà contemporanea. Laddove esiste la forza – e Cinardi, la forza, ce la passa, eccome – non esiste vigliaccheria…L’artista, si direbbe, ha paura della folgore che lui stesso evoca. Poiché, a spingerlo, esiste una forma, rozza e invidiabile, di liturgia tribale, oscura. Ascoltiamo, di nuovo dalla confessione dell’artista: << in un ceppo di castagno che ho scolpito, ho visto la massa ingombrante del mio corpo senza volto, perché la mia esistenza è quella universale dell’uomo e delle sue domande senza risposta>>. Verrebbe da rispondere che la natura crea, al contempo, figure intenzionalmente concepite come uomini e donne, e altre figure che senza intenzione, per un semplice grumo materico, assomigliano ai viventi. Immagine e somiglianza, appunto: ed è il tema di quanto Francesco ha imparato a realizzare bene.Se qualcuno si prenderà cura amorosa di questo talento naturale, avremmo in Francesco un interprete sorprendente. E’ anche lui come una radice; sopporta i colpi d’accetta ma, per non inaridirsi, ha bisogno di una pioggia provvidenziale. Le sue, sono immagini disperate per un desiderio onnivoro d’amore. Per una voglia di sprofondare nell’ubiquità dell’amore.

Roma 1980                                                                                        ALBERTO BEVILACQUA