Alberto Bevilacqua
Parla
di
Francesco
Quando conobbi Francesco, egli applicava al legno
quel lavoro di scavo che lo portava alla sua simbologia preferita: il nodo
sacro con cui la natura suggella le
radici delle piante (in modo evidente) e degli esseri (nell’occulto
insondabile). Convinsi Francesco a riflettere su questo punto e a mutare il
proprio stile allorchè affrontava la tela, il quadro. La sua tendenza, allora,
era infatti volta a servirsi dei pennelli per tratteggiare una figurativa
piena, di stampo tradizionale. Il nodo, quindi, ossia l’intuizione
esatta, si racchiudeva nella scultura; mentre la pittura serviva, quasi, in un
ruolo di didascalia.
Oggi, Francesco ha imparato, anche in pittura, lo scorcio
visionario che si serve del particolare per alludere a un’immensità di vero
vissuto, e quindi anche di figure. Mi convince questo artista uscito, con
un’intelligenza del mezzo espressivo, dall’artigiano volitivo di un tempo.
Quando si confessa, egli dichiara: <<La mia forza, il mio dolore, il mio
conflitto con la materia è una profonda radice che mi porto fin da piccolo, è
questa la mia ricerca>>. Si è vero, ma solo in parte lo è. In realtà,
Francesco deve convincersi che è possibile un piccolo miracolo, da cui è stato
gratificato; è possibile, intendo, che l’istinto, il puro istinto,
semplicemente sollecitato da occasionali prese di visione dell’opera altrui,
porti alla purezza dello stile, o la contenga. In Cinardi, esiste l’impronta
della forza tipica del romanico, e in particolare di uno scultore quale
l’Antelami. E quella forza del romanico si atteggiava stralunata, simbolica,
contorta a raffigurare visceri stravolti, o cuori strizzati da un dolore
arcaico: membra,arti,resi – naturalmente – dalla spinta energica, passionale,
del romanico. E’ bello quando Francesco confessa, ancora: << Guardo
l’umanità che nessuna pietra può sigillare, ma che alla pietra restituisce ossa
e carne >>. Il pensiero corre ai versi ungarettiani della pietra, al San
Michele, e non è fuori luogo accorgersi che, nell’intaglio di Francesco o nel suo
colpo di pennello, qualcosa si incide del tipico scavo di Ungaretti. Il nostro
artista si esprime come tale, poi tenta un commento alla sua stessa opera,
quasi a trovare una giustificazione, il breve eloquio di una didascalia.
Dichiara ancora : << Mi assale una sorta di malinconia guardando
attentamente le mie opere e mi chiedo: è veramente così l’essere che mi
circonda? Abbietto, falso, crudele e vigliacco? Chissà…. >>. Strano senso
di colpa, questo. Perché senza dubbio di sorta, le pitture e le sculture di
Francesco non esprimono affatto un negativo
della condizione umana: caso mai un primitivo che persiste
nella civiltà contemporanea. Laddove esiste la forza – e Cinardi, la
forza, ce la passa, eccome – non esiste vigliaccheria…L’artista, si direbbe, ha
paura della folgore che lui stesso evoca. Poiché, a spingerlo, esiste una
forma, rozza e invidiabile, di liturgia tribale, oscura. Ascoltiamo, di nuovo
dalla confessione dell’artista: << in un ceppo di castagno che ho
scolpito, ho visto la massa ingombrante del mio corpo senza volto, perché la
mia esistenza è quella universale dell’uomo e delle sue domande senza
risposta>>. Verrebbe da rispondere che la natura crea, al contempo,
figure intenzionalmente concepite come uomini e donne, e altre figure che senza
intenzione, per un semplice grumo materico, assomigliano ai viventi. Immagine
e somiglianza, appunto: ed è il tema di quanto Francesco ha imparato a
realizzare bene.Se qualcuno si prenderà cura amorosa di questo talento
naturale, avremmo in Francesco un interprete sorprendente. E’ anche lui come
una radice; sopporta i colpi d’accetta ma, per non inaridirsi, ha bisogno di
una pioggia provvidenziale. Le sue, sono immagini disperate per un desiderio
onnivoro d’amore. Per una voglia di sprofondare nell’ubiquità dell’amore.
Roma 1980 ALBERTO
BEVILACQUA